di Mila Mercadante #Africa twitter@gaiaitaliacom #Milapersiste
I paesi africani dell’area francofona sono Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Gabon, Ciad, Senegal, Camerun, Repubblica democratica del Congo, Togo, Benin, Repubblica Centrafricana, Niger, Guinea equatoriale, Isole Comore, per un totale di oltre 150 milioni di africani. Ex colonie, dopo un lungo e difficile processo di liberazione ostacolato da una durissima repressione, questi paesi hanno ottenuto un risultato tutt’altro che positivo: in teoria non sono più colonie, di fatto sono ancora totalmente dominati dalla Francia. Il dominio viene esercitato attraverso l’instabilità politica e attraverso la moneta, il CFA, diviso in due valute (area centrale, area ovest) non intercambiabili che hanno valore solo nelle aree in cui circolano. Il tasso di cambio del CFA (prima con il franco e in seguito con l’euro) è fisso, la moneta è trasferibile e convertibile e le riserve di cambio sono centralizzate. Il 50% delle riserve valutarie dei paesi suddetti (più un altro 20% che serve a coprire eventuali passività) deve essere obbligatoriamente depositato nelle casse della Banque de France a Parigi. Questo vuol dire che se per esempio uno Stato esporta e ricava in un anno 1 miliardo di dollari, deve dare 500 milioni alla Francia, che si rimpolpa di denaro a gratis. I trasferimenti vengono effettuati da tre banche: la Banque Centrale des États de l’Afrique de l’Ouest, la Banque des États de l’Afrique Central e la Banca delle Isole Comore, le quali appartengono all’area CFP (colonie francesi del Pacifico). Queste banche africane sono praticamente sotto il comando della Francia, poiché i funzionari francesi inseriti nei consigli di amministrazione godono dell’esclusivo diritto di veto su qualunque decisione. Naturalmente oggi la banca di riferimento per il CFA non è più la banca centrale francese ma la BCE, che coordina le tre banche suddette. Con l’euro le cose sono addirittura peggiorate rispetto al passato.
La caratteristica di trasferibilità del CFA genera giocoforza una fuga di capitali dall’Africa alla Francia. Dal 1970 al 2008 la fuga di capitali dai 14 paesi dell’area CFA fu pari a 850 miliardi di dollari, mentre oggi la cifra ha superato i 1200 miliardi di dollari. Quando era Presidente, Mitterand vietò la fuga di capitali dall’area francofona, di conseguenza la Francia quei capitali li rifiuta e così le banche centrali africane sono costrette a riacquistare la propria moneta adoperando una valuta forte (euro o dollaro). Come fanno? Attingono alle riserve custodite dal Tesoro francese. Un bel congegno. Un altro aspetto da considerare riguarda l’import: l’area CFA è costretta a importare da Stati Uniti ed Europa una gran quantità di materie che servono per la produzione, e non è un caso se piuttosto che sostenere il fiore all’occhiello dei paesi africani – l’agricoltura – le banche sostengono le importazioni. Una situazione insopportabile: mentre circolano miliardi, le popolazioni africane vivono nella povertà assoluta.
La finta liberazione
Il 61% dei colpi di stato verificatisi nel continente Africano in 50 anni ha avuto come teatro proprio i paesi dell’area francofona. Il caos permette a chi comanda di consolidare il potere politico quando vacilla. La cosiddetta liberazione delle colonie avvenne per gradi. Il primo leader di governo che nel 1958 decise coraggiosamente di uscire dall’impero coloniale senza scendere a compromessi fu Sekoù Touré, in Guinea. I francesi quella volta non fecero fuori lui ma il paese intero: lo lasciarono dopo aver distrutto completamente tutti gli edifici pubblici, tutti i libri, tutti gli strumenti e i macchinari delle scuole, delle imprese e degli istituti di ricerca, dopo aver ucciso tutti gli animali nelle fattorie, dopo aver appiccato incendi e dopo aver avvelenato tutte le derrate alimentari. Un metodo non dissimile da quello mafioso, un avvertimento destinato agli altri capi di Stato, affinché capissero una volta per tutte quale fosse il prezzo da pagare in caso di mancata collaborazione. Subito dopo il leader senegalese Senghor scelse di trattare la liberazione in amicizia con la Francia, vale a dire rispettando i suoi diktat. La paura convinse quasi tutti a cedere a ricatti e accordi-capestro per riprendersi la libertà, o meglio una finta libertà. Coloro che non si piegarono vennero assassinati.
Le regole imposte
Negli “Accordi di Cooperazione” sono contenute diverse regole, tutte a vantaggio della Francia: la confisca automatica delle riserve nazionali dei 14 paesi; il veto di accedere liberamente al fido bancario che le banche centrali africane hanno col Tesoro francese, al quale spetta il diritto di concedere o meno un prelievo; il diritto per i francesi di acquistare o di rifiutare per primi ogni genere di materia prima o risorsa naturale di quei paesi; il diritto di priorità della Francia su qualunque contratto governativo e sulla gestione dei maggiori assets economici (trasporti, elettricità, acqua, porti, banche, agricoltura, commercio e attività edilizie); il diritto esclusivo di forniture militari e di addestramento militare; il diritto di intervenire militarmente qualora vi fossero minacce agli interessi francesi; l’obbligo di allearsi solo con la Francia in caso di conflitto globale.
Gheddafi e il dinaro d’oro
Nelle ex colonie serpeggia un perenne malcontento che talvolta si fa evidente. Nel 2017 in alcuni Stati africani vi furono dure proteste contro il CFA. Due anni prima, nel 2015, il leader del Ciad rivelò che le armi sequestrate a Boko Haram durante un intervento militare erano per la metà di provenienza francese. Il Ciad chiese di poter uscire dal CFA entro il 2018. La notizia di ritrovamenti di armi di fabbricazione francese fu confermata anche da Niger e Camerun. Tra il 2015 e il 2018 i jihadisti di Boko Haram hanno attaccato il Ciad 32 volte provocando 651 vittime, il Camerun ha subìto la perdita di 1880 persone tra civili e militari, il Niger è stato attaccato ben 100 volte con 893 vittime. Tutte le azioni di destabilizzazione nell’area francofona (e altrove) hanno sempre una firma leggibile. Vale la pena di aprire una parentesi per ricordare che quando Hillary Clinton era segretario di Stato si rifiutò di inserire il nome di Boko Haram nella lista nera delle organizzazioni terroristiche estere. Lo ha fatto John Kerry nel 2013. I deliziosi coniugi Clinton erano troppo coinvolti in affari in Nigeria con la Clinton Foundation e la Clinton Global Initiative.
L’ultimo eclatante episodio di rovesciamento di un regime che costituiva una minaccia per la Francia, per gli Stati Uniti e per la UE, fu l’uccisione di Gheddafi il 20 ottobre 2011, alla quale come tutti sappiamo partecipò attivamente Sarkozy. Contemporaneamente avveniva la defenestrazione del leader di governo della Costa d’Avorio, Glabo, il quale voleva dotare il paese di una moneta propria, indipendente. Gheddafi – che possedeva riserve auree immani – sosteneva fortemente l’area africana francofona nel suo tentativo di liberazione dal giogo del CFA e rifiutava l’insediamento di basi militari occidentali in Africa. Il progetto ambizioso del leader libico consisteva nella creazione di una moneta africana forte (il dinaro d’oro) che potesse competere alla pari con euro e dollaro. Addio sfruttamento, e giù le mani dal petrolio. Un simile affronto indusse la NATO a intervenire in Libia per far cadere il regime, così come è stato ampiamente documentato da più fonti ufficiali e da un lungo resoconto fornito su Foreign Policy da Brad Hoff, giornalista indipendente e veterano della marina americana, e così come si evince da alcune delle mail di Hillary Clinton nel periodo in cui era al Dipartimento di Stato. L’idea di una moneta pan-africana che togliesse potere alla Francia in Africa è senza alcun dubbio il pricipale tra i motivi che spinsero Sarkozy ad attaccare la Libia con un bombardamento aereo nel quale Gheddafi fu colpito, poi catturato dai ribelli controllati dagli Usa e quindi ucciso.
La Carta dei Diritti e la realtà
Nell’agenda dell’unione europea la soluzione della questione CFA dovrebbe essere messa al primo posto. La Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo – Risoluzione 41/128 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 4 dicembre 1986 – recita testualmente: “Articolo 1. Il diritto allo sviluppo è un diritto umano inalienabile in virtù del quale ogni persona umana e tutti i popoli sono legittimati a partecipare e a contribuire e a beneficiare dello sviluppo economico, sociale, culturale e politico, in cui tutti i diritti umani e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente realizzati. 2. Il diritto umano allo sviluppo implica anche la piena realizzazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione che comprende, sulla base delle previsioni di ambedue i Patti internazionali sui diritti umani, l’esercizio del loro inalienabile diritto alla piena sovranità su tutte le loro ricchezze e risorse naturali. 3. Gli stati hanno il diritto e il dovere di elaborare appropriate politiche di sviluppo nazionale che mirino al costante miglioramento del benessere dell’intera popolazione e di tutti gli individui, sulla base della loro attiva, libera e significativa partecipazione nello sviluppo e nella equa distribuzione dei benefici che ne risultano. Articolo 5 Gli stati adotteranno decise misure per eliminare le estese e flagranti violazioni dei diritti umani dei popoli e degli individui danneggiati da situazioni come quelle che discendono dall’apartheid, da tutte le forme di razzismo e di discriminazione razziale, colonialismo, dominazione e occupazione straniera; aggressione, interferenza straniera e minacce contro la sovranità nazionale, l’unità nazionale e l’integrità territoriale, minacce di guerra e rifiuto di riconoscere il fondamentale diritto dei popoli all’autodeterminazione.
(9 gennaio 2019)
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