di Mila Mercadante #milapersiste twitter@milapersiste #blog
La storia del naufragio di Josefa – rimasta per due giorni aggrappata al relitto di un gommone con accanto i cadaveri di una donna e di un bambino – fa acqua da tutte le parti. Trovo squallido soffermarsi su particolari riguardanti le condizioni fisiche della donna e sul fatto che sulla Open Arms qualcuno le abbia messo lo smalto sulle unghie delle mani: noi donne riconosciamo in certi stupidi gesti una sorprendente proprietà terapeutica, perfino nelle peggiori circostanze. Le contraddizioni sono altre, e sono vistose. Circolano versioni contrastanti (La giornalista Nadia Kriewald,presente a bordo della motovedetta libica, afferma che non vi fossero naufraghi o cadaveri in mare), video e foto inquietanti che farebbero dubitare chiunque, forniti via social dalla stessa Open Arms e trasmessi in alcuni format trelevisivi. Il video di un salvataggio operato da Open Arms il 30 giugno scorso mostra alcuni membri dell’equipaggio intenti a distruggere i relitti di un gommone: come da protocollo, è obbligatorio rendere inutilizzabili le imbarcazioni degli scafisti. Fin qui niente di anomalo. Le anomalie riguardano il video che riprende il ritrovamento di Josefa e di due cadaveri il 17 luglio, ben 17 giorni dopo. Ebbene, le immagini parlano da sole: i resti del primo gommone e del secondo (quello su cui viaggiava Josefa) si trovano nella stessa posizione, combaciano al millimetro l’uno con l’altro, così come alcune suppellettili. Tutto identico, diciassette giorni dopo, e durante un salvataggio diverso. Possibile? Assolutamente no. Non è finita qui: supposto che la Guardia libica abbia distrutto il gommone su cui erano rimaste due donne e un bambino che si rifiutavano di ritornare in Libia, i resti del gommone e i tre naufraghi sarebbero andati alla deriva con uno spostamento verso nord-ovest di circa 100 miglia nautiche mentre soffiava un forte maestrale e le onde del mare erano alte fino a due metri. Il maestrale è un vento che proviene da nord-ovest, e questo significa che Josefa e i cadaveri sul relitto sono stati sospinti controcorrente. Ancora: Open Arms (e la povera Josefa) hanno annunciato di voler denunciare per omissione di soccorso l’Italia e la Libia. L’Italia non è colpevole di omissione di soccorso: il porto di Catania è stato indicato immediatamente per lo sbarco. Mancando a Lampedusa le celle frigorifere, Catania è stata scelta per la disponibilità di celle frigorifere nelle quali conservare i due cadaveri. Josefa sarebbe stata ricoverata in ospedale e curata. Open Arms se l’è squagliata portandosi via Josefa, è andata in Spagna viaggiando per quattro giorni con due cadaveri a bordo, senza celle frigorifere.
(22 luglio 2018)
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